È una verità imbarazzante, e la confido solo a te: anche se scrivo per mestiere, e anche se in oltre quarant’anni di professione ho scritto migliaia di testi e, beh, nove libri, continuo ad adoperare la tastiera come un’esordiente imbranata.
Cioè: vado abbastanza veloce, ma uso solo quattro dita, e devo tenere lo sguardo più o meno fisso sui tasti.
Adesso però ho deciso che basta: scrivere in questa maniera è scomodo (mio figlio dice che è da boomer. Il che è peggio). Il guaio è che imparare a battere con dieci dita è una noia mortale. Ed è piuttosto sgradevole, perché contraddice tutti gli automatismi che ho consolidato nei decenni di pratica quotidiana.
Per fortuna conosco un buon trucco: dico che è buono non solo perché lo suggerisce l’Harvard Business Review, ma perché l’ho già sperimentato con un’altra attività pallosissima (l’adozione di una piccola ma efficace routine di ginnastica, che ormai seguo ogni mattina).
Il trucco – devo ammetterlo – ha funzionato proprio bene.
Dunque. L’Harvard Business Review dice una roba molto semplice: per raggiungere grandi risultati, comincia da piccole abitudini.
Ma a questo punto puoi chiederti se è davvero tutto qui. E poi: che cos’è, esattamente, un’abitudine? E come funziona?
Cos’è davvero un’abitudine
In poche parole, noi chiamiamo “abitudine” un comportamento o un processo di pensiero che, dopo averlo ripetuto molte volte, è diventato automatico. E che, in un medesimo contesto, tendiamo a replicare con scioltezza, senza neanche doverlo decidere, spesso in modo inconsapevole.
Può trattarsi, per esempio, della sequenza dei gesti che facciamo per l’igiene quotidiana, o del fatto che ci sediamo sempre allo stesso posto quando siamo a tavola. O di come sappiamo guidare cambiando le marce al momento giusto. In realtà, sembra che il 45 per cento delle attività che svolgiamo ogni giorno (emozioni e pensieri compresi) sia abituale.
Come si formano le abitudini
In sostanza, le abitudini sono routine o abilità consolidate. Sono stabili: si formano lentamente (in media, in 66 giorni), si cancellano altrettanto lentamente. Si attivano attraverso un ciclo dell’abitudine, che comprende tre elementi.
Fai mente locale e prova a riconoscerli:
- Il primo è la situazione o l’ambiente in cui usi il “pilota automatico”,
- Il secondo è lo specifico, tipico comportamento che attivi in quella situazione o in quell’ambiente,
- Il terzo è il vantaggio o la gratificazione che ottieni dal fatto di aver attivato quel comportamento.
Di questi tre elementi devi tener conto anche quando vuoi modificare una vecchia abitudine, o cancellare un’abitudine dannosa. Nel senso che dovrai prima riconoscerli, e poi “smontarli” o sottoporli a revisione, a uno a uno.
Avere abitudini sembra noioso. A qualcuno potrebbe anche tornare in mente il poema di Martha Medeiros che comincia così: “Lentamente muore / chi diventa schiavo dell’abitudine”.
Tu però puoi notare che Medeiros condanna, appunto, l’essere schiavi dell’abitudine. È qualcosa di diverso dal delegare all’abitudine lo svolgimento di ineliminabili compiti di routine, in modo tale da non essere obbligati a investirci ogni volta risorse (energia, attenzione, focalizzazione, decisioni) sempre nuove.
Già: la scarsa, preziosa attenzione di cui tutti noi disponiamo va riservata ad altri compiti, più rilevanti, impegnativi o gratificanti. Per dire: se sto scrivendo qualcosa, sarebbe meglio che la mia attenzione fosse tutta focalizzata su quello che sto scrivendo. Piuttosto che sul fatto che le mie dita (in questo momento solo quattro, in un futuro tutte e dieci) al momento giusto tocchino ciascuna il tasto giusto.
Dell’importanza di investire attenzione nei compiti più rilevanti parlo più ampiamente in seguito, perché sì, è un tema cruciale.
Quando le abitudini ci rendono schiavi
Tornando alle abitudini: in sostanza, c’è un solo modo in cui le abitudini possono “renderci schiavi”.
Succede quando quello che facciamo abitualmente si trasforma in un automatismo, di gesto o di pensiero, al quale non riusciamo più a sfuggire. In questo senso, il fenomeno della fissità funzionale è emblematico: siamo così abituati a usare un oggetto (per esempio, una graffetta) in un certo modo, da non riuscire neanche a immaginare di poterlo impiegare altrimenti.
Non a caso, uno dei più semplici e noti test di creatività consiste proprio nel chiedere alle persone di inventare il maggior numero possibile di usi alternativi per un attrezzo d’uso comune come un mattone o, appunto, una graffetta.
Secondo l’Harvard Business Review, oltre al risparmio di cognizione e attenzione, nel coltivare abitudini c’è un altro importante vantaggio.
Riguarda precisamente il cambiare o migliorare i nostri comportamenti adottando “buone” abitudini. E riguarda il fatto che spesso, quando ci proponiamo di cambiare qualcosa che ci riguarda, falliamo proprio perché pretendiamo che il cambiamento sia troppo improvviso, e radicale.
Così, scrive HBR: “l’uomo che non ha mai fatto esercizio fisico si propone di fare ginnastica almeno mezz’ora ogni giorno. La donna che sta incollata all’email fino a mezzanotte si propone di leggere ogni sera per un’ora prima di addormentarsi. L’uomo che si è appena ingozzato con un secondo dessert si propone di abolire da subito qualsiasi tipo di dolce”.
Quando ragioniamo in questo modo, rischiamo di scoraggiarci in fretta e di esporci alla frustrazione: i grandi obiettivi chiedono grandi sforzi, coerenza e una dedizione totale. E può bastare un inciampo o una distrazione per farci sentire così frustrati da convincerci ad abbandonare il nostro progetto.
Molto meglio cominciare con microabitudini: piccole cose facili da fare, che possono essere parti, o passi, di un obiettivo più grande. Anche questo non è semplice da fare, perché modificare comportamenti consolidati non lo è mai. Ma è molto più agevole (e indolore!) che rivoluzionare tutto in una volta sola.
5 passi per creare microabitudini
Ci si può riuscire in cinque passaggi. Se tieni a mente quello che hai letto prima sulla formazione delle abitudini, capisci subito che si tratta di suggerimenti non solo ragionevoli, ma brillanti.
- Il primo: identificare un compito molto, molto piccolo. Così piccolo da richiedere davvero uno sforzo minimo, e da poter essere svolto in un tempo molto limitato (l’esempio di HBR è: leggi un singolo paragrafo ogni sera. Oppure: fai un singolo piegamento ogni mattina). Nel mio caso: “fai fra i tre e i cinque minuti di esercizi di battitura ogni pomeriggio”. Come? Online c’è un sacco di tutorial, e basta sceglierne uno. Io, per esempio, mi sto trovando bene con gli esercizi di typingstudy.com. L’unica accortezza è selezionare, in home page, una tastiera italiana.
- Il secondo: inserire quel compito in una routine già consolidata. Per esempio: leggi quel paragrafo appena ti infili sotto le coperte. Oppure mentre ti lavi i denti. O fai un piegamento prima di infilarti le calze. Io, per esempio, faccio gli esercizi di battitura come ultima cosa, prima di alzarmi dalla scrivania e andare a cena.
- Il terzo: tieni conto di tutte le volte che completi il tuo compito. Basta una spunta su un foglio di carta e ci vuole un attimo (il sito di dattilografia che sto usando permette di farlo).
- Il quarto: non aver fretta di intensificare il tuo sforzo, ma accrescilo lentamente. Puoi aggiungere qualcosina solo quando da almeno due settimane ti stai annoiando di fare quel poco che fai.
- Il quinto. Coinvolgi una o più persone amiche in questa sfida delle microabitudini (ehi! È esattamente quello che sto facendo proprio in questo momento, e su questa pagina, raccontandoti del mio proposito di imparare a usare bene la tastiera).
Tutto ciò non significa che non vale la pena di darsi obiettivi anche grandi e sfidanti. Gli obiettivi aiutano a capire qual è la direzione giusta verso cui muoversi. Ma sono le abitudini che aiutano ad arrivarci davvero, passo dopo passo, un po’ alla volta ogni giorno, e soprattutto senza dover investire sul singolo obiettivo un intero patrimonio di attenzione.
A proposito di attenzione…
Ed eccoci all’altro argomento notevole.
In italiano parliamo di “prestare” attenzione.
In inglese, diciamo “to pay” attention. Esattamente come se l’attenzione fosse un capitale di cui disponiamo, e che spendiamo per entrare in contatto col mondo.
Per certi versi è proprio così: l’attenzione di cui disponi è, letteralmente, un patrimonio (pensa soltanto a come e a quanto i mass media, vecchi e nuovi, si sforzano di catturarla, la tua attenzione, per poi rivenderla agli utenti pubblicitari guadagnandoci una quantità di soldi).
L’attenzione determina, migliorandola, la qualità dell’intera esperienza di vita. Se stiamo attenti, siamo in grado di capire, imparare, ricordare meglio. Evitiamo i rischi e scongiuriamo gli errori. Se prestiamo attenzione possiamo apprezzare un libro, un quadro, un film, una musica o una bella chiacchierata. Possiamo reagire in modo giusto a quanto di imprevisto ci succede intorno, e possiamo rispondere a tono. Possiamo svolgere bene compiti complessi. E anche le nostre relazioni interpersonali migliorano.
L’attenzione è uno stato mentale che riguarda il qui e ora. Quando stiamo attenti, vuol dire che la nostra mente è vigile e non se ne sta inconsapevolmente svolazzando chissà dove, per i cavoli suoi.
Ma (questo è un punto importante!) l’attenzione non è mai pienamente sotto il nostro controllo: può succedere che sia catturata da qualcosa senza che l’abbiamo deciso, e prima ancora che ce ne accorgiamo. E, quando siamo stanchi, il nostro livello di attenzione è basso, incostante e ondivago.
Dunque, per imparare a calibrare, a orientare e a investire al meglio il nostro patrimonio di attenzione ci conviene sapere, almeno a grandi linee, come l’intera faccenda dello stare attenti funziona. E quali diverse forme, o aspetti, può avere l’attenzione.
Come funziona l’attenzione
Cominciamo dicendo che il fatto di stare attenti implica la necessità di selezionare, cioè di scegliere a ragion veduta, soltanto una porzione degli innumerevoli stimoli che possiamo percepire coi nostri sensi, guardando, toccando, ascoltando, annusando o assaggiando. Agli stimoli esterni si aggiungono gli stimoli interni: sono sia i messaggi che ci invia il nostro corpo, sia i pensieri, le idee e le fantasticherie che la nostra mente sta formulando.
In sostanza, c’è una quantità finita di cose verso cui possiamo dirigere la nostra attenzione nello stesso momento. Già nei Princìpi di psicologia (1890), William James scrive che essere focalizzati vuol dire lasciar perdere alcune cose per potersi dedicare efficacemente ad altre.
Questo succede perché il nostro cervello è sì potente, ma la sua capacità di elaborare informazioni è comunque limitata, in termini sia di numerosità, sia di durata: consideriamo che il semplice compito di distinguere e indicare una scatola rossa o verde coinvolge 50 diversi processi neurali.
Per questo – ormai lo sappiamo da diversi anni – il multitasking è una pratica non solo inefficace, ma dannosa: costringe la mente a un inutile superlavoro non per eseguire diversi compiti contemporaneamente (una quantità di studi accademici conferma che non è in grado di farlo) ma per passare vorticosamente, e nel giro di frazioni di secondo, dall’uno all’altro.
Se vuoi approfondire l’inefficacia del multitasking puoi consultare questo articolo di Efficacemente.
Come si esprime la nostra attenzione
Ed eccoci a un altro punto importante: dobbiamo anche sapere che ci sono due diversi modi in cui si esprime la nostra attenzione. Possiamo dirigerla intenzionalmente verso qualcosa (per esempio il film che stiamo guardando, il lavoro che stiamo facendo): è l’attenzione esplicita, o goal driven (orientata al compito). In sostanza, siamo noi che selezioniamo intenzionalmente lo stimolo su cui focalizzarci.
Ma c’è anche una parte di attenzione implicita, che vigila su tutto quanto ci sta attorno ed è sempre pronta a percepire nuovi stimoli (stimulus driven): anche se siamo catturati dal film, ci accorgiamo del vicino di poltrona che comincia a mangiare patatine. Anche se siamo concentrati su un lavoro, percepiamo il suono del telefono. O un minaccioso odore di fumo che entra dalla porta.
Possiamo immaginare che l’attenzione agli stimoli esterni e l’attenzione al compito siano poste ai due estremi di un continuum. L’esperienza ci aiuta a stare focalizzati su quanto stiamo facendo, ma saremo comunque sempre esposti a uno stimolo non previsto.
In altre parole: sappiamo stare bene attenti se continuiamo a essere orientati al compito, senza lasciarci acchiappare da ogni nuovo stimolo (per esempio, l’ennesima notifica sul cellulare). Ma non dobbiamo mai chiuderci completamente agli stimoli esterni e, se dalla porta entra effettivamente un brutto odore di fumo, conviene che andiamo subito a vedere che cosa sta succedendo.
Per inciso: la classica distrazione delle persone geniali e creative non significa che non stanno attente a niente, ma che sanno stare attentissime a quanto stanno pensando, e a nient’altro. In realtà, dunque, sono super focalizzate (e, per loro fortuna, raramente si imbattono in un incendio).
Dobbiamo anche notare che tutti gli stimoli esterni sono in competizione tra loro per guadagnarsi la nostra attenzione. A vincere sono, di volta in volta, gli stimoli più intensi, a livello percettivo o emotivo. O gli stimoli più inattesi (un rumore improvviso nella notte ci mette in stato di massima allerta).
A proposito di stato di allerta. Tutti noi sappiamo per esperienza che si può stare molto, poco o per niente attenti. Per indicare il livello di attenzione si usa un termine inglese, arousal, che in italiano potremmo tradurre con “eccitazione” o “attivazione”.
L’arousal riguarda il grado di attività del nostro sistema nervoso, ma è connesso anche con svariate modificazioni fisiologiche (per esempio, la pressione del sangue). Possiamo pensare che anche i livelli di arousal siano disposti in un continuum, che va da un minimo (il sonno) a un massimo ed esasperato livello di vigilanza.
La cosa da ricordare è che le prestazioni migliori si ottengono quando l’arousal non è troppo basso (stai dormendo in piedi) o troppo alto (sei in un tale stato di tensione e allarme che non riesci più a organizzare il pensiero e il comportamento). Torpore e panico pregiudicano l’attenzione.
Parliamo di ampiezza dell’attenzione
Ultimo punto (sì, è importante anche questo). Possiamo ragionare in termini di ampiezza dell’attenzione, che può essere focalizzata su un singolo elemento, o estesa a un ampio complesso di elementi.
Nel primo caso parliamo di attenzione selettiva: stiamo, per esempio, cercando refusi in un testo. O siamo concentrati a trovare le chiavi della macchina, che chissà dove sono finite. O stiamo cercando di scorgere nella folla che ci viene incontro la faccia della persona con cui abbiamo un appuntamento.
Oppure sappiamo accorgerci che qualcuno, in una stanza rumorosa e affollata, ha pronunciato il nostro nome, e lo percepiamo subito nonostante il brusio: è uno stimolo che riconosciamo facilmente, e al quale siamo abituati a rispondere (ecco perché, se vuoi andartene in giro sotto falso nome, ti conviene sceglierne uno che non sia troppo diverso dal tuo. Altrimenti, rischi di non voltarti automaticamente se qualcuno ti chiama).
Nel secondo caso parliamo di vigilanza diffusa: per esempio, siamo in un ambiente sconosciuto e ci sforziamo di intercettare qualsiasi indizio di pericolo. Oppure siamo su una spiaggia meravigliosa e ci apriamo alla piacevolezza di tutti gli stimoli (visivi, sonori, olfattivi, tattili).
Conclusione
In sostanza, se parliamo di attenzione dobbiamo tener presenti quattro possibili dimensioni:
- La prima riguarda la direzione: il prestare maggiore attenzione agli stimoli interni (pensieri, sensazioni corporee) o a quelli esterni. È un orientamento che possiamo determinare rifocalizzandoci, se ci accorgiamo che la nostra attenzione è andata a farsi un giro.
- La seconda riguarda l’intensità: il livello dell’arousal (dal sonno al panico, con una consigliabile propensione a stare lontani dai due estremi).
- La terza riguarda l’intenzione: l’essere volontariamente concentrati o il lasciarsi catturare da uno stimolo. Anche questa è una cosa che possiamo allenarci a decidere secondo le situazioni: ovvio che se siamo a teatro ci lasciamo catturare (altrimenti non ci godiamo lo spettacolo). Ovvio che se stiamo studiando dobbiamo volontariamente concentrarci. Ovvio che se sentiamo odore di fumo reagiamo in modo adeguato.
- La quarta riguarda l’estensione: la maggiore o minore ampiezza del campo che stiamo considerando.
Stare attenti a come e dove si dirige la nostra attenzione può aiutarci (ricordiamo che è una risorsa limitata, e che è preziosa!) a gestirla meglio.
Infine: l’eccesso di stimoli a cui siamo esposti in ogni momento ci affatica, e pregiudica la nostra capacità di prestare attenzione a ciò che importa davvero. Sembra che il semplice atto di osservare la natura sia in grado di darci, finalmente, un po’ di ristoro: un buon motivo per uscire a fare quattro passi nel verde (e anche questa potrebbe essere una buona abitudine da adottare e incrementare, facendo ogni giorno qualche passo in più).
Annamaria Testa.