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A molti di noi piace dire frasi come “non m’interessa nulla del giudizio degli altri”, “faccio quello che voglio, non mi preoccupo di quello che si pensa di me”.

Sono parole che vengono dette con orgoglio, per dimostrare la propria forza di carattere. Peccato che siano assolutamente false.

Le stesse persone che le ripetono sono quelle che sorridono contente quando ricevono un complimento e che s’innervosiscono quando vengono criticate. Ed è normale che sia così: a tutti importa dell’opinione degli altri. Stiamo meglio quando siamo stimati sul posto di lavoro e amati dagli amici e il nostro umore peggiora se non ci sentiamo apprezzati.

Il nostro comportamento rispetto al giudizio altrui secondo Schopenhauer

Quindi, che dovremmo fare?

Impegnarci al massimo per fare bella impressione?
Secondo Arthur Schopenhauer, no. 

È chiaro che quello che avviene nella coscienza altrui dovrebbe esserci assolutamente indifferente e la nostra stessa indifferenza aumenterà nella misura in cui comprenderemo a sufficienza la superficialità e la futilità di pensieri, i ristretti limiti di concetti, la meschinità dei sentimenti, la falsità delle opinioni e il numero considerevole di difetti che esistono nella maggior parte dei cervelli umani […] comprenderemo allora che attribuire un alto valore all’opinione degli uomini è far loro troppo onore.

A. Schopenhauer.

È per parole come queste, scritte in “Parerga e Paralipomena”, che Schopenhauer si è guadagnato la fama di misantropo. Non si può dire che avesse una gran fiducia nel genere umano, ma le sue parole, ben lontane dall’essere distruttive come sembrano, sono un importante punto di partenza.
È vero, le nostre opinioni sono spesso superficiali e sbagliate. Vedremo perché.
È altrettanto vero, però, che c’è una strada per migliorare. Vedremo anche quella.

Quanto sono superficiali le nostre opinioni?

Nel 1967 Jones ed Harris fecero uno studio ormai diventato classico.

Chiesero ad un gruppo di persone di leggere un saggio su Fidel Castro. Diedero loro delle informazioni sull’autore del saggio, dicendo che aveva scritto quelle pagine di sua spontanea volontà.

Selezionarono poi un altro gruppo di persone a cui fecero leggere lo stesso saggio, dicendo però che l’autore aveva ricevuto l’ordine di scriverlo.

Alla fine, chiesero ad entrambi i gruppi di persone se, secondo loro, la reale opinione dell’autore si discostasse da quella espressa nel saggio. Il gruppo a cui era stato detto che l’autore aveva scritto spontaneamente ritenne che il saggio riflettesse la sua reale opinione, mentre il gruppo a cui era stato detto che l’autore aveva ricevuto l’ordine di scrivere quelle parole… Rispose esattamente nello stesso modo. Anche per il secondo gruppo, l’autore era stato sincero.

Una conclusione del genere potrebbe sembrare assurda: il secondo gruppo non ha pensato che forse l’autore non fosse stato totalmente sincero, dato che era stato obbligato a scrivere quel saggio?

A quanto pare, no. E, per quanto possa sembrare incredibile, ma nella vita di tutti i giorni ci comportiamo come i partecipanti del secondo gruppo. Tendiamo a pensare che le azioni di una persona siano dovute soltanto a ciò che pensa e alla sua personalità, anche quando ci sono molte altre variabili da tenere in considerazione.

Errori di corrispondenze ed euristiche

Questa tendenza si chiama errore di corrispondenza e si verifica ogni volta che ci facciamo un’idea sulla personalità di qualcuno a partire dalle sue azioni, evitando di considerare le variabili situazionali come il contesto sociale, quello specifico e altre possibili cause esterne.

Errori come questo sono dovuti ad un meccanismo chiamato elaborazione automatica: notiamo dei dettagli e attribuiamo loro un significato a seconda delle informazioni più facilmente accessibili che abbiamo in mente, dedicando scarso impegno alla valutazione attenta di queste informazioni.

Per fare un esempio: di recente, Marco ha letto su internet che un certo attore ha la fama di essere una persona sgradevole.

È probabile che, quando lo incontrerà dal vivo al festival del cinema, non gli chiederà una foto. Marco non ricorda nemmeno dove abbia letto la notizia (non verifica la fonte) e non ha mai parlato prima con l’attore (non ha esperienze pregresse) ma l’informazione nella sua mente è accessibile e facile da comprendere, ed è quindi quella che guida la decisione.

Come i partecipanti dello studio di Jones ed Harris, anche Marco può sembrarci sciocco. In realtà sta facendo una cosa perfettamente funzionale: utilizzare le euristiche per una decisione minore.

Le euristiche, ossia le cosiddette scorciatoie del pensiero, sono i modi in cui la mente valuta le informazioni per prendere decisioni in modo veloce.
Le principali sono tre: disponibilità, rappresentatività e simulazione.

L’euristica della disponibilità è proprio quella utilizzata da Marco. Crea giudizi veloci sulla base delle informazioni più facilmente accessibili nella memoria. Non importa che siano accurate o veritiere. L’importante è che siano accessibili. In questo modo la nostra mente risparmia il tempo e le energie che servirebbero per cercare altre informazioni.

L’euristica della rappresentatività, invece, ci porta a suddividere le persone in categorie. Considerare l’unicità e la complessità di ogni singola persona è faticoso, quindi alleggeriamo il carico cognitivo raggruppandole in gruppi uniformi.

Se vediamo una persona vestita in modo elegante, ad esempio, saremo portati a pensare che sia ricca, perché attribuiamo il vestito elegante alla categoria delle “persone ricche”. In genere non ci fermiamo a considerare altre opzioni, come ad esempio il fatto che quello potrebbe essere un vestito noleggiato.

L’euristica della simulazione: si tratta delle famose aspettative che creiamo nella nostra mente. Se ci aspettiamo che tutti i banchieri siano persone serie e poco accoglienti, appena vediamo un banchiere sorridere tendiamo a pensare che sia una persona particolarmente gentile, molto più di quanto lo penseremmo di un barista che sorride allo stesso modo. 

Siamo tutti superficiali?

A ognuno di noi piace pensare di essere tutt’altro che persone superficiali, ma, anzi, ci sentiamo vittime della superficialità degli altri.

In realtà non ha senso dividere il mondo fra persone superficiali e persone profonde, ma ha senso distinguere i momenti in cui siamo superficiali da quelli in cui possiamo permetterci di non esserlo.

In effetti, poter andare in profondità è un lusso.

Secondo Ruder e Bless (2003) tendiamo ad essere superficiali quando non abbiamo tempo, quando abbiamo poche informazioni o quando ne abbiamo troppe e per questo abbiamo difficoltà a distinguere quelle importanti da quelle che invece non lo sono, oppure quando ci fidiamo troppo della nostra capacità di giudizio e pensiamo che non sia necessario concentrarci più di tanto.

Sembrerebbe proprio che la società di oggi sia un terreno fertile per la superficialità: non abbiamo mai tempo, siamo subissati da tantissime informazioni, ma, allo stesso tempo, abbiamo raramente una reale conoscenza dei fatti.
Forse, più che un terreno fertile, la società di oggi potrebbe essere definita il regno della superficialità.

Come ci si salva dalla superficialità?

La risposta potrebbe suonare immediata: la riflessione.

Il punto non è solo riflettere, è come riflettere.

Crediamo che pensare sia un’attività naturale per le persone, ma in verità dobbiamo esercitarci per “pulire” il pensiero da ciò che lo inquina, come i bias, ad esempio. Potremmo farci un’idea superficiale di una persona sulla base di alcuni elementi e poi rimuginare sempre su quei medesimi elementi, arrivando a convincerci che la nostra prima impressione fosse quella giusta.
Dobbiamo esercitarci a prendere in considerazione altri fattori. Lo psicologo Harold Kelley ci spiega come fare.

3 antidoti+2

Kelley afferma che per andare oltre la prima impressione dobbiamo considerare tre elementi: distintività, coerenza e consenso.
Immaginiamo di passeggiare in città e di vedere Filippo, un nostro conoscente, che strilla al telefono per strada.  La nostra parte più superficiale è subito portata a pensare che Filippo, che conosciamo poco, sia una persona collerica.

Ora proviamo a considerare i tre elementi di cui parla Kelley:

  • Distintività: abbiamo visto Filippo comportarsi così in altre situazioni? Se la risposta è sì, potremmo essere legittimati a pensare che sia davvero una persona collerica. Se è no, probabilmente la rabbia di Filippo è situazionale ossia legata a dei dettagli della telefonata che noi non conosciamo.
  • Coerenza nel tempo e nelle modalità: se abbiamo visto Filippo andare in escandescenza in altre situazioni, sappiamo dire quanto spesso succeda? Più spesso succede, più il suo comportamento è da attribuire alla sua personalità. Se invece succede raramente, è più probabile che alcune situazioni specifiche elicitino quel tipo di reazione.
  • Consenso: altre persone si comporterebbero come Filippo in quella situazione? Ad esempio, potremmo notare che Filippo sta urlando a telefono frasi come “devi chiamare subito i pompieri o mi va a fuoco la casa!”. Sapendo che c’è un incendio in casa loro, molte persone urlerebbero a telefono. Se invece grida “non mi hai ancora stirato i pantaloni?!” la sua reazione può non essere giustificata dalla situazione, ma dipendere più che altro da un carattere collerico.

Oltre ai suggerimenti proposti da Kelley, ci sono altri due antidoti contro il veleno della superficialità. Entrambi coinvolgono l’immaginazione.
Proviamo ad immaginare di dover lavorare con quella persona. Cosa valuteremmo di lei come collega? Ci fideremmo ad affidarle delle mansioni? Avrebbe qualcosa da insegnarci?
Astrarre la persona dal contesto in cui la vediamo e pensare a come sarebbe se lavorassimo insieme a lei ci aiuta a valutarla in modo più distaccato e oggettivo.
Se ancora non riusciamo a farci un’idea chiara, possiamo provare a immaginare di essere al suo posto. Spesso giudichiamo in modo superficiale qualcuno solo perché non ci soffermiamo a riflettere su tutte le variabili in gioco. Fermarci e metterci nei suoi panni ci porta a notare molti più elementi. Gli stessi che, da fuori, è molto facile ignorare.

In questo modo riusciremo forse a mettere da parte la superficialità e la futilità di pensieri, i ristretti limiti di concetti, la meschinità dei sentimenti, la falsità delle opinioni e il numero considerevole di difetti che esistono nella maggior parte dei cervelli umani di cui parlava Schopenhauer, il filosofo misantropo per eccellenza. O, almeno, così dice chi non si sofferma a comprenderne il pensiero.

Conclusioni

Gli esperimenti che abbiamo citato e la scoperta delle euristiche dimostrano che, purtroppo, molto spesso pensiamo davvero in modo futile e limitato, proprio come diceva Schopenhauer.

Certo, leggendo le sue parole è facile giudicarlo misantropo. È un giudizio fondato su una prima impressione.

Approfondendo i suoi testi e le ricerche citate in questo articolo, però, riusciamo a spiegarci perché si focalizzasse tanto sugli errori di giudizio e sulle false opinioni degli uomini. Riusciamo a togliergli l’etichetta del misantropo per arrivare a capirlo davvero.
È questo che accade quando educhiamo noi stessi alla riflessione più profonda: barattiamo un facile giudizio per una reale comprensione.

Avatar di Benedetta Santini
Benedetta Santini è un’insegnante e una psicologa. Stanca di sentirsi ripetere frasi come “la filosofia è inutile” e “Hegel è troppo difficile”, nel 2020 ha fondato Filosofia e Caffeina con lo scopo di fare divulgazione filosofica sui social. È st...

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