[Sono le 22 e 22 di sabato sera].
L’altro giorno, scrollando il feed di Instagram, mi sono imbattuto in una frase:
“Non tutti reagiamo a questa quarantena con mille piani e attività. E va bene così. Smettiamola di colpevolizzarci per non avere voglia di fare.”
È un adagio che ha iniziato a muoversi sotto traccia, tra il video di una coppia di anziani che balla sul balcone, i meme, le dirette, i Ferragnez alla finestra, le iniziative benefiche, le polemiche sui runner e le piccole-grandi preoccupazioni con le quali ciascuno di noi sta facendo i conti ogni giorno:
finalmente avremmo tempo per fare, ma non riusciamo a far nulla.
Mi è capitato di rileggerlo, declinato in formule diverse, condiviso nelle stories di amici, spiegato più diffusamente in articoli di esperti e psicologi: non dobbiamo pretendere troppo da noi stessi.
In una situazione di angoscia e pericolo come quella che viviamo, una reazione iperattiva non è la regola, ma una possibilità.
Possibilità alla quale mi vien da credere abbiano aderito tutti gli influencer che seguo, che hanno fatto partire una “Trenta ore per la vita” di live da far invidia a Lorella Cuccarini, e i runner dell’ultimo minuto, colti da una voglia di sudare a cui sono certo mai avrò la fortuna di andare incontro nella vita.
[Sono le 23 e 23, ha appena finito di parlare il premier Conte].
Ci lamentiamo sempre di non avere tempo.
Le nostre giornate sono l’accumulo di impegni di lavoro, studio, famiglia, tra i quali ostinatamente ci ritagliamo spazio per la palestra, le cene con gli amici, la discoteca, il calcetto, i weekend fuori porta, le vacanze.
Tutto permette di cullarci in uno stato di insoddisfazione esistenziale che ha una sola consolazione.
Una passione, un sogno nel cassetto, un obiettivo da raggiungere che la contingenza della vita che viviamo tiene lontano, ma è la chimera cui affidare il nostro ultimo pensiero prima di addormentarci.
È il piano B: il libro che non abbiamo mai scritto, la lettera di licenziamento per poter cambiar vita come ha fatto il nostro ex compagno di classe.
È il corso di giapponese a cui non abbiamo tempo di andare, quello di chitarra, il fisico perfetto da modellare in palestra.
È quell’unica consolazione che ci tiene in piedi nelle giornate di merda quando torniamo a casa brasati alle 9 di sera.
Potrei essere più di quello che sono, se solo volessi.
E adesso quella chimera è lì in un angolo della casa che ci guarda, ci chiede attenzione.
È una presenza invecchiata male, è il sogno di quando avevamo 16 anni che non siamo mai riusciti a realizzare, e di fronte alla caducità della vita che stiamo toccando con mano, è passato a riscuotere le puntate investite nei momenti più duri.
E noi che facciamo?
Cantiamo dai balconi per ricordarci di essere vivi, mentre intorno la gente muore.
Facciamo il pane in casa, la pizza, ma la verità è che non riusciamo neppure a prendere in mano quei libri che sempre avremmo voluto avere il tempo di leggere.
Non solo perché siamo troppo preoccupati per concentrarci, troppo inquieti e privi di certezze per poter finalmente investire le nostre energie nel progetto che abbiamo sempre pensato avrebbe potuto risollevarci, ma perché siamo mediocri.
Perché in questa enormità di tempo concesso, tempo reclamato per anni e finalmente ottenuto, ci rendiamo conto che nulla di quel che ci riguarda è speciale.
La nostra stessa vita, la sua ordinaria monotonia, perde di significato di fronte all’enormità e alla grandezza dell’Esistenza.
Facciamo i conti con la nostra natura umana troppo umana: pigra, vogliosa, isterica, annoiata, volubile, insoddisfatta, egoista, irrispettosa, inetta, viziata, pusillanime, illusa e manipolatrice.
Siamo piccole macchine indefesse che hanno trovato la propria ragion d’essere, il proprio stato di quiete, nella quotidianità.
Ora il giochino si è inceppato.
Il tempo, l’oggetto che mai abbiamo potuto maneggiare, è nelle nostre mani, e come una fonte luminosa, fastidiosissima, non fa altro che mostrare il re nudo nella stanza.
E quel re siamo noi.
[Sono le 11 e 39 di domenica mattina].
Forse è sbagliato pensare che il modo di vivere questi tempi di un solo individuo, il suo paradigma, possa essere applicato come un’etichetta all’intera umanità.
Qualcuno potrebbe sentirsi offeso dall’affresco impietoso sulla natura umana – prima di tutto la mia – che ho dipinto con le parole di ieri sera.
Forse c’è chi, quel sogno nel cassetto, lo ha già archiviato da tempo, mettendosi l’anima in pace.
Chi ha fatto i conti con la propria natura ben prima che la pandemia avanzasse.
Ma sarei felice se ci fosse almeno una persona che si riflette in questo stato di inadeguatezza alla vita in cui mi ritrovo intrappolato; dovuto non tanto alla constatazione che il virus, la paura che suscita, mi tiene legato inerme e pigro a una sedia, quanto a fare i conti, davvero, con il titanismo tra ciò che sono e ciò che mi sono illuso di poter essere se solo volessi.
Perché quando ti convinci che l’unica cosa per poterti migliorare, per poter fare, sia il tempo, ecco che quando il tempo ti piomba sorprendentemente addosso, scopri di non avere le idee abbastanza chiare per scrivere quel libro – e forse neppure il talento – che sei troppo pigro per perdere chili in un momento come questo, che il giapponese, per uno che non ha mai imparato bene neppure l’inglese, è una sciocchezza, che le tue poesie o i tuoi disegni o le foto degli interni che pubblichi sul secondo profilo Instagram anonimo sperando prima o poi ottengano attenzione, non interessano a nessuno perché mediocri e scadenti.
E allora è più facile buttarsi sul divano e scegliere una serie, aspettare passi tutto questo tempo, con la sua forza di metterci all’angolo, per poter tornare a pontificare sul nulla prima di addormentarci.
Cosa ne sarà delle nostre chimere quando tutto sarà finito?
Non ho una risposta.
Come recita l’aforisma: non ci sono soluzioni semplici a problemi complessi.
Probabilmente sto davvero chiedendo troppo a me stesso, colpevolizzandomi, come ripetono gli esperti.
O forse è solo la scusa che mi serve ora per non trovare una risposta, chiudere questo pezzo, e accendere una serie.
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Ciao, buon lunedì.
Il pezzo che hai appena letto è di Daniele Biaggi, ed è un pezzo che ho trovato davvero bello e potente.
Te l’ho voluto condividere perché purtroppo l’industria della crescita personale è spesso dominata dal diktat del “se vuoi, puoi”, un diktat che non lascia spazio alle emozioni e alle naturali imperfezioni che ci rendono umani.
Per quella che è la mia esperienza però…
…possiamo cambiare solo nel momento in cui smettiamo di prenderci per il culo con la falsa speranza di un futuro radioso di cui non siamo disposti a pagare il prezzo.
…possiamo cambiare solo nel momento in cui lasciamo andare l’illusione che domani ci sveglieremo finalmente come il nostro “Io” ideale super-produttivo e super-motivato.
…possiamo cambiare solo nel momento in cui accettiamo la nostra attuale mediocrità e iniziamo a sporcarci le mani attuando miglioramenti imperfetti.
Perché la vera crescita personale non è un film con un sottofondo motivante, ma spesso somiglia ad un mediocre lunedì in cui però decidiamo di alzare finalmente il culo per cambiare davvero qualcosa.
Un abbraccio,
Andrea Giuliodori.